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OCSE: IL RITARDO DELL’ITALIA PER L’OCCUPAZIONE FEMMINILE

Proprio in occasione del recente 8 marzo, festa della donna, sono stati diffusi i dati dell’ultimo rapporto OCSE sull’occupazione femminile nel mondo. L’Italia, in barba a tanto impegno per le pari opportunità degli ultimi decenni – dalla legge del ‘77 sulla parità d’accesso ai posti di lavoro fra i due sessi alla creazione, negli anni ’90, dell’ apposito dicastero – è uno dei Paesi OCSE col più basso tasso d’ occupazione femminile al mondo.
Il Bel Paese si posiziona esattamente al 72° posto: subito dopo il Vietnam, e precedendo solo Messico e Turchia. In Europa, peggio di noi, si classificano solo Grecia e Malta.
Il tasso d’occupazione femminile – rileva l’Organizzazione di Parigi – negli anni è senz’altro cresciuto: si è passati dal 45% del 1970 al 58% del 2008, sino al 62% di oggi (aumento, quest’ultimo, particolarmente significativo se consideriamo che gli ultimi due anni sono stati quelli della grande crisi economica mondiale). Questa media, chiaramente, include forti differenze tra un Paese e un altro: si va dal tasso d’ occupazione femminile superiore al 70% nei Paesi nordici (col record dell’ 80% in Islanda, prima al mondo) a valori inferiori al 50% in Paesi come appunto Grecia, Malta, Italia, Messico e Turchia.
I dati sono poco confortanti anche per quanto riguarda le differenze retributive fra i due sessi: sempre nei Paesi OCSE, le donne guadagnano in media quasi un quinto meno degli uomini (17%), con una “forbice” che è massima in Corea del Sud e Giappone (30%), consistente in Germania, Regno Unito e Canada (20%), e minore da noi (13%).
Per i civicratici, questo è un terreno d’impegno tra i primi e più urgenti: in linea, anzitutto, col dettato della Dichiarazione ONU dei Diritti dell’ Uomo del 1948 e degli articoli 3e 4 della nostra Costituzione.
In Italia, anche se abbiamo, in controtendenza, il dato della percentuale di donne a livelli alti di carriera (l’11%, contro una media mondiale del 5%), il quadro complessivo è segnato ancora dall’arretratezza. L’esperienza quotidiana lo conferma: ancor oggi, nel 2010, le donne impiegate in tante aziende di piccole o medie dimensioni spesso subiscono umilianti battute d’arresto nella carriera (anche se motivate ufficialmente con scuse di vario genere) quando aspettano un bambino (è di poche settimane fa il caso d’un’importante manager del nord licenziata poco dopo aver partorito, alla faccia di Statuto dei lavoratori e legge del ’71 sulla tutela delle lavoratrici madri, e solo dopo molti sforzi assunta da un’altra azienda) o, addirittura, quando semplicemente annunciano l’intenzione di sposarsi.

F.F.

 

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