Non è vero che le vittime di reati “ violenti “ hanno sempre diritto al patrocinio a spese dello Stato.
COSA PREVEDE LA LEGGE
L’art. 76 comma 4 ter del DPR 30 maggio 2002 n. 115 , modificato dalla legge n. 38 del 2009, prevede che le persone offese dei reati ivi elencati (e cioè per maltrattamenti in famiglia, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti persecutori, nonché , ove commessi in danno di minori, reati di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, corruzione di minorenni e adescamento di minorenni) possano essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti nello stesso articolo (ad oggi il limite è di Euro 12.838.01).
L’art. 75 DPR citato afferma in modo inequivocabile che “l’ammissione è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure , derivate e accidentali, comunque connesse”.
LA SCELTA DEL LEGISLATORE
La gratuità dell’accesso al patrocinio difensivo fu una scelta del legislatore. Tale scelta era finalizzata a incentivare l’emersione di gravi episodi di violenza sulle donne, spesso in difficoltà nel denunciare alle autorità competenti. In tal modo fu anticipata, in qualche modo, la tutela delle vittime di quei reati “violenti”, poi in gran parte descritti dal cd. “ Codice Rosso “ ( L. 69/2019 ).
Già in passato si era posto il tema della estensione del gratuito patrocinio a tutte le vittime di reato o, quantomeno, a quelle vittime di reati sessuali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
La rilevanza dei beni giuridici oggetto di tutela ha suggerito al legislatore di non differenziare l’accesso alla giustizia in base al reddito, quantomeno con riferimento ai reati sopra elencati. Tale scelta è stata ribadita di recente dalla Corte Cost. 1/2021: “la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreti sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima , e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore”.
COSA ACCADE IN PRATICA
Eppure il tema non è risolto, perché l’ambito di applicazione del beneficio viene ad essere talvolta ristretto alla sola costituzione di parte civile nel processo penale e non nelle procedure connesse. Dall’esercizio dell’azione penale nel processo penale possono derivarne condanne al risarcimento dei danni patiti che quelle stesse parti civili possono portare ad esecuzione, talvolta forzata. Ci sono spesso a questo proposito prassi difformi presso i diversi Consigli dell’Ordine degli avvocati, nonostante le procedure di recupero del credito derivino proprio dalla sentenza di condanna in sede penale per quel titolo di reato. Per alcuni Consigli dell’Ordine la vittima che intende esercitare in sede civile il proprio diritto al risarcimento deve presentare una nuova istanza al Consiglio dell’Ordine competente per territorio ma, soprattutto, non varrebbe più la deroga ai requisiti di reddito e pertanto la parte interessata deve produrre documentazione reddittuale comprovante il rispetto di quei limiti.
Quest’ultima prassi conduce a volte a esiti inconciliabili. Laddove la persona offesa di quei reati sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato in sede penalistica in deroga ai requisiti di reddito, in quella civilistica si vede alla volte frapposta la necessità di dover provare quel presupposto della non abbienza che giustifica l’ammissione al beneficio nei procedimenti per reati diversi da quelli di cui all’art. 76 co.IV ter DPR 115/2002, in contrasto con quanto afferma il già citato art. 75 DPR.
Ed è evidente che le procedure di recupero credito sono connesse al processo penale dove quel diritto al risarcimento è stato riconosciuto.
Dunque, spesso si crea la paradossale situazione di vittime di reati sessuali o comunque che ledono l’integrità fisica e la libertà delle donne destinatarie di una rafforzata tutela in sede penale, ammesse al patrocinio nel processo penale per la costituzione di parte civile (o anche presenti come persone offese ex art. 90 cpp) a prescindere dal reddito, poi trattate in modo differenziato quando si tratta di andare a rendere effettivo il diritto al risarcimento del danno conseguente a reato.
LA POSIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
Il Consiglio Nazionale Forense, di recente, ha confermato la legittimità dell’orientamento più restrittivo, ritenendo che la disposizione di cui all’art. 76 comma 4 ter DPR 115/2002 abbia carattere eccezionale rispetto al principio generale e che la norma dovrebbe essere modificata nel senso indicato, e cioè estendere la deroga al limite di reddito anche nelle procedure diverse dal processo penale dove la vittima del reato deve ricorrere per attuare il diritto al risarcimento del danno. Fino a quel momento, secondo il CNF nulla da fare e le persone non avrebbero le previste garanzie.
CHE FARE ?
In realtà, contrariamente a tale restrittiva interpretazione del CNF, la legge vigente è più che sufficiente a garantire alle persone offese dei reati indicati la tutela legale in tutte le procedure connesse, comprese quelle di recupero delle somme a titolo di risarcimento, altrimenti la norma stessa non avrebbe senso alcuno. L’art. 75 DPR 115/2002 è chiaro, ma se proprio dovesse essere a tal fine necessaria una modifica per rendere effettiva la tutela delle vittime, è il caso di assicurarla subito e porre fine a una parziale e ingiustificata difformità interpretativa e soprattutto a interpretazioni anguste. Quindi proponiamo un’urgente semplice aggiunta all’art. 76, prevedendo che il superamento del limite di reddito va inteso anche con riferimento alle procedure comunque connesse al processo penale.
Desi Bruno, Avvocato
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