Mar 13, 2025 | Battaglie | 0 commenti

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LA RINASCITA DI VITTORIA – COME UNA RAGAZZA DI TREDICI ANNI HA TROVATO IL CORAGGIO DI RINASCERE

La rinascita di Vittoria

Dedica

A chi ha sentito di non essere abbastanza

a chi ha affrontato sfide che sembravano

insormontabili,

e a chi ha trovato il coraggio di rinascere.

Questo libro è per voi,

per ricordarvi che la forza più grande

è quella che nasce dentro di noi

Con tutto il cuore,

Vittoria

 

Introduzione

Mi chiamo Vittoria, ho 13 anni e sono una ragazza che ha sempre affrontato la vita con un passo diverso rispetto agli altri. Non solo per le esperienze che ho vissuto, ma anche per il fatto che, fin da piccola, sono stata un passo avanti rispetto agli altri bambini. Sono nata nel 2011, e se tutto fosse andato come previsto, oggi sarei una ragazza di terza media. Ma i miei genitori hanno deciso che avevo qualcosa in più, qualcosa che mi avrebbe permesso di affrontare le scuole elementari a soli cinque anni. Non sapevo allora che quella decisione avrebbe cambiato profondamente la mia vita, portandomi a fare i conti con le difficoltà, le sfide e, a volte, anche il dolore, mentre cercavo di capire chi ero e dove stavo andando.

Ho sempre cercato di nascondere le mie differenze, ma non è mai stato facile. Le scuole elementari, le medie, e poi il liceo… ogni tappa del mio percorso scolastico mi ha messo davanti a ostacoli da superare, ma anche a lezioni importanti che mi hanno aiutato a crescere. Mi hanno diagnosticato la dislessia e, nel corso degli anni, ho dovuto imparare a fare i conti con la solitudine e le incomprensioni, ma anche con la forza che avevo dentro di me per non arrendermi.

Questa è la mia storia: una storia fatta di sfide, di risate e lacrime, di momenti in cui mi sono sentita persa, ma anche di risvegli che mi hanno spinta a guardare il mondo con occhi nuovi. Ho imparato che essere diversa non significa essere meno capace, e che, alla fine, siamo tutti in grado di trovare il nostro posto nel mondo, anche quando sembra impossibile.

 

Un inizio fuori dagli schemi

Mi chiamo Vittoria, ho tredici anni e frequento il primo anno del liceo delle scienze umane. A dirlo così potrebbe sembrare tutto normale, ma c’è un dettaglio che spesso sorprende chi mi conosce: sono nata nel 2011 e teoricamente dovrei essere in terza media, ma sono avanti di un anno rispetto ai miei coetanei. Questa particolarità ha segnato il mio percorso scolastico e personale, lasciandomi addosso cicatrici, ma anche lezioni importanti.

Quando avevo cinque anni, i miei genitori decisero di farmi iniziare la scuola elementare. A casa, mia madre era convinta che fossi pronta: imparavo in fretta, ero curiosa, e già avevo voglia di scoprire il mondo. Perché aspettare un altro anno? Così, mentre i miei amici dell’asilo continuavano a disegnare con le tempere e a giocare con le costruzioni, io mi ritrovavo a imparare e a scrivere, e a imparare a fare i primi conti.

All’inizio non sembrava un problema. Anzi, pensavo fosse qualcosa di positivo. Ero una bambina brillante e i miei genitori ne erano fieri. Ma a scuola non conta solo quanto sei brava: conta anche come ti vedono gli altri. Essere sempre la più piccola della classe, senza mai qualcuno della mia età accanto, ha finito per rendermi un bersaglio.

Le prese in giro iniziarono presto. “sei troppo piccola per stare qui”, dicevano alcuni compagni. Quando facevo bene un compito o rispondevo correttamente a una domanda, c’era sempre qualcuno pronto a ridere; “tanto la maestra ti aiuta perché sei la mascotte della classe”. Quando invece sbagliavo, la spiegazione era sempre la stessa: “è normale, è troppo piccola per capirlo.”

La mia fortuna alle elementari fu quella di avere una maestra molto comprensiva, la maestra Grazia, lei era la mia maestra preferita, era come una seconda mamma. Infatti quando in seconda elementare se ne andò in pensione io mi misi a piangere, da quando lei se ne andò iniziarono tutte quelle prese in giro.

Le cose non migliorarono con il passaggio alle scuole medie. Anzi, il primo giorno fu un vero disastro, avevo l’ansia che la situazione delle elementari si potesse ripetere; e invece fu ancora peggio.

Voi sapete che vuol dire arrivare tutte le mattine a scuola, e non parlare con nessuno? Oppure avete presente quella sensazione che si prova quando gli altri si approfittano di voi? Io si, e anche molto bene, alle medie avevo una compagna della casa famiglia, le volevo un mondo di bene e quindi spesso gli facevo dei regalini, oppure le regalavo la mia gomma, le penne i colori ecc. Sapete cosa è successo dopo?! Mi ha iniziato ad escludere poi se ne andata e non mi ha più cercata. Un’ altra cosa che mi è successa e che in terza media una mia compagna si è messa nel banco con me solo perché io non la disturbavo, non ero fonte di distrazione, volete sapere una cosa? Ci ero cascata, io avevo veramente creduto che lei fosse mia amica, ma ovviamente non era così.

Ma facciamo un passo indietro.

Un mese dopo l’inizio della scuola media, a casa ricevemmo una notizia

Lo zio di mio padre era venuto a mancare, lui stava in puglia e quindi io, mia madre mio padre e mio fratello partimmo, a me e mio fratello ci lasciarono a Milazzo a casa di mia nonna la madre di mia madre, mentre i miei genitori sono andati in puglia. Quello non fu l’ unico evento tragico perché mentre i miei non c’erano io e mio fratello siamo finiti all’ospedale e non una ma ben due volte, lo so detta così sembra una barzelletta ma vi posso giurare che è vero; ora vi spiego meglio; io e mio fratello stavamo giocando a basket quando ad un certo punto la palla va a finire su una brocca di vetro che si frantumò in mille pezzi, e presi dalla paura che ci potessero sgridare abbiamo preso il vetro e lo abbiamo buttato in campagna, ma nel farlo un pezzo di vetro tagliò il gomito di mio fratello Luigi. Sanguinava e sanguinava allora abbiamo chiesto aiuto e siamo andati all’ospedale. Il giorno dopo sono tornati i miei e io mi sono alzata per salutarli, ma all’ improvviso mi sentì male. Iniziai a vedere tutto sfocato e a sentire un forte ronzio nelle orecchie. Prima ancora di rendermene conto, caddi a terra svenuta. Mi portarono subito all’ ospedale. Fortunatamente non era niente di grave, ma quell’ episodio segnò l’inizio di un periodo complicato. Da quel momento, iniziai a soffrire di continui sensi di svenimento. Andavo a scuola con la paura costante che potesse succedere di nuovo, e questa sicurezza alimentava il mio disagio.

Nonostante tutto, cercavo di mantenere il mio spirito forte. Volevo dimostrare a me stessa e a gli altri che potevo farcela, anche se spesso mi sembrava di combattere una battaglia invisibile.

Le difficoltà scolastiche si accumulavano giorno dopo giorno, ma ancora non sapevo il vero motivo. Per il momento, però, ero soltanto una ragazzina che cercava di sopravvivere alle sfide quotidiane della scuola, sperando che le cose migliorassero.

 

La diagnosi e un nuovo inizio

La seconda media fu l’anno che segnò una svolta nella mia vita. Non lo sapevo ancora, ma tutto stava per cambiare: il mio modo di vedere la scuola, i miei rapporti con gli insegnanti e persino il modo in cui percepivo me stessa.

Fin da piccola, mi era sempre sembrato che ci fosse qualcosa di diverso nel mio rapporto con i libri, i numeri e lo studio in generale. I miei compagni leggevano pagine intere senza difficoltà, rispondevano alle domande della maestra con prontezza. Io, invece, dovevo rileggere la stessa frase più e più volte prima di capirla. Le lettere sembravano ballare davanti ai miei occhi, confondendomi, e i numeri nei problemi di matematica si intrecciavano come fili impossibili da sciogliere.

“Devi solo impegnarti di più,” dicevano gli insegnanti. E così facevo: passavo pomeriggi interi sui libri, cercando di memorizzare ciò che per gli altri sembrava naturale. Ma non importava quanto tempo ci dedicassi: il giorno dopo, tutto mi sfuggiva di mano come sabbia tra le dita.

Mia madre cominciò a preoccuparsi sul serio quando iniziai a tornare a casa con il viso stanco e gli occhi rossi. “Vittoria, sembri esausta,” disse una sera, mentre ero piegata sul quaderno cercando di completare i compiti di matematica. “C’è qualcosa che non va?”

Io scuotevo la testa. Non volevo deluderla. Pensavo fosse colpa mia, che fossi semplicemente “meno brava” degli altri.

Ma mia madre non si fermò a quelle risposte evasive. Dopo vari colloqui con gli insegnanti, decise di portarmi da uno specialista per capire meglio cosa stesse succedendo. “Non ti preoccupare,” mi disse mentre salivamo in macchina per andare all’appuntamento, “voglio solo aiutarti.”

La dottoressa che ci accolse era gentile e rassicurante. “Non c’è nulla di cui aver paura, Vittoria,” disse sorridendo. “Faremo solo qualche piccolo test, va bene?”

Accettai, anche se non ero del tutto convinta. I test durarono ore: c’erano lettere da leggere, parole da scrivere, numeri da ricordare. Mi sentivo come se fossi sotto esame, e ad ogni errore mi cresceva dentro la sensazione di fallimento. Quando finalmente finimmo, la dottoressa parlò a lungo con i miei genitori mentre io aspettavo in un’altra stanza, giocando nervosamente con una penna.

Alla fine, mia madre mi prese per mano. “Tesoro,” disse con voce dolce ma seria, “la dottoressa ha detto che hai una cosa chiamata dislessia.”

Dislessia. Non avevo mai sentito quella parola prima, ma suonava complicata, quasi minacciosa. Mia madre cercò di spiegarmelo: “Il tuo cervello funziona in modo diverso, ma questo non significa che tu sia meno intelligente. Vuol dire solo che dobbiamo trovare un modo diverso per farti imparare.”

Mi sembrava una spiegazione gentile, ma non riuscivo a scacciare la sensazione che qualcosa fosse irrimediabilmente sbagliato in me.

Da quel momento, le cose iniziarono a cambiare a scuola. Gli insegnanti ricevettero indicazioni su come aiutarmi: tempi aggiuntivi durante le verifiche, fogli con caratteri più grandi, esercizi semplificati. Alcuni professori si mostrarono comprensivi, ma altri sembravano infastiditi da queste “attenzioni speciali.”

La professoressa di italiano fu la peggiore, lei mi pugnalava con il sorriso, quel sorriso mi aveva fatto fidare di lei, e invece mi faceva sentire incapace e mi trattava da incapace. A pari merito arriva anche la professoressa di matematica, durante una verifica, distribuì i fogli a tutti i compagni e quando arrivò da me, mi consegnò un foglio con caratteri enormi. “Perché il suo è diverso?” chiese uno dei miei compagni, incuriosito.

Lei rispose con un tono sprezzante: “Perché lei ha problemi e non capisce bene.”

Quelle parole mi colpirono come uno schiaffo. Sentii le guance diventare rosse per l’umiliazione. Mi sentii piccola, invisibile, come se fossi l’unica al mondo a non essere “normale.”

Ma non tutti gli insegnanti erano così. Il professor De Patrizio, che insegnava tecnologia, fu una vera boccata d’aria fresca. Non mi trattava mai come se avessi un problema. Anzi, sembrava avere fiducia nelle mie capacità. Durante le sue lezioni riuscivo a concentrarmi davvero, e per qualche motivo i suoi argomenti mi appassionavano.

Un giorno, mentre osservava uno dei miei progetti, mi disse: “Sei brava, Vittoria. Non lasciare che nessuno ti faccia credere il contrario.” Quelle parole mi rimasero dentro come una piccola luce nei momenti più difficili.

Nonostante tutto, c’erano giorni in cui il peso della “diversità” si faceva sentire. Durante le verifiche, ricevevo sempre il foglio alla fine perché il mio era diverso. La prof si avvicinava e mi spiegava cosa fosse diverso nel mio compito rispetto a quello dei miei compagni. Ogni volta mi chiedevo se avrebbero mai smesso di vedermi solo come “quella con il foglio speciale.”

Ma a poco a poco iniziai a capire che quella diagnosi non era una condanna. Era solo un nuovo modo di affrontare le cose. E forse, con il tempo, avrei imparato a non vergognarmi più di essere diversa, ma a farne la mia forza.

 

La solitudine delle medie

Dopo la diagnosi della DSA, la mia vita alle medie cambiò, ma non nel modo che avrei sperato. Pensavo che finalmente le cose sarebbero andate meglio, che avrei ricevuto il supporto necessario per affrontare le mie difficoltà e che magari anche i miei compagni avrebbero capito il motivo delle mie differenze. Invece accadde l’opposto: la distanza tra me e loro si fece ancora più grande.

Iniziò tutto in modo sottile. A volte i cambiamenti peggiori non avvengono all’improvviso, ma si insinuano lentamente, finché non ti rendi conto che sei rimasta sola. Se prima venivo coinvolta, anche se di rado, nelle attività della classe, ora ero completamente ignorata. Le chiacchiere e le risate durante la ricreazione sembravano allontanarsi da me, come se ci fosse un muro invisibile che mi separava dagli altri.

Mi accorsi di essere diventata un’estranea soprattutto quando iniziarono a non invitarmi più ai compleanni. Prima c’erano stati quegli inviti di circostanza, quelli che magari arrivavano per gentilezza, senza aspettarsi davvero che ci andassi. Ma ora nemmeno quelli arrivavano più. Ogni volta che sentivo i miei compagni parlare di feste a cui avrebbero partecipato, di serate piene di risate e giochi, mi sentivo come se non esistessi. Non ero più parte del loro mondo.

Anche durante le verifiche scolastiche la situazione non faceva che peggiorare. Avevo diritto a tempi più lunghi e fogli semplificati, ma questo attirava subito l’attenzione dei miei compagni. Sentivo i loro sguardi quando la prof passava accanto al mio banco per consegnarmi il “foglio diverso”, quello che doveva aiutarmi. Nessuno diceva nulla apertamente, ma l’imbarazzo si sentiva nell’aria.

Diversa fu invece la mia esperienza nella scuola di inglese privata che frequentavo nel pomeriggio. Anche lì mi erano state date delle agevolazioni per la DSA ma, mi sentivo motivata, e sentivo una vera attenzione nei miei confronti, tanto che riuscivo ad intervenire spontaneamente e non avevo paura di sbagliare.

A casa, i miei genitori facevano del loro meglio per sostenermi. “Non devi dar peso a quello che dicono gli altri,” mi ripeteva sempre mia madre. “Ognuno ha le sue difficoltà, e tu stai facendo del tuo meglio.” Ma per quanto cercassi di convincermi che avesse ragione, ogni giorno a scuola diventava una battaglia contro il senso di esclusione.

C’erano giorni in cui mi chiedevo cosa avessi fatto di sbagliato per meritarmi tutto questo. La verità, però, era che non avevo fatto nulla. Ero semplicemente diversa, e in quel momento nessuno sembrava pronto ad accettarlo.

Ma, anche se non lo sapevo ancora, quel periodo di solitudine mi avrebbe insegnato qualcosa di prezioso: la capacità di resistere, di trovare dentro di me una forza che mi avrebbe permesso di andare avanti nonostante tutto. Una forza che sarebbe diventata fondamentale per affrontare il futuro.

 

La terza media e gli esami

La terza media era stata un anno complesso e pieno di sfide. Per molti miei compagni, gli esami erano una formalità, un passo obbligato prima del salto verso il liceo. Per me, invece, rappresentavano una prova importante, un momento in cui volevo dimostrare a me stessa e agli altri che ero capace, che le mie difficoltà non mi definivano.

Avevo deciso di preparare la mia tesina sulla Croce Rossa e il volontariato, un argomento che mi stava davvero a cuore. Ero affascinata dall’idea di poter aiutare gli altri in momenti difficili, di essere una persona su cui contare. Da tempo seguivo tutto ciò che riguardava la CRI e sognavo di poter iniziare il volontariato appena compiuti i 14 anni. Quando parlavo della mia scelta, però, notavo spesso degli sguardi scettici, come se nessuno credesse davvero che fossi in grado di affrontare un argomento così serio. “Ma cosa vuoi sapere tu del volontariato?” avevano detto alcuni compagni ridendo. Anche certi professori sembravano poco convinti, come se si aspettassero qualcosa di più “semplice” da me.

Nonostante questo, io mi ero preparata con impegno, dedicando ore alla ricerca e alla stesura della tesina. Quando arrivarono gli esami, ero sorprendentemente tranquilla, almeno per le prime prove.

La prima prova era il compito di italiano. Un tema, che tutto sommato affrontai senza troppi problemi. Scrivere mi piaceva, e in quell’occasione sentii di riuscire a esprimere quello che pensavo senza troppa difficoltà.

La seconda prova riguardava le lingue, un’altra materia che affrontai con una certa serenità. Anche lì ero riuscita a cavarmela, nonostante i miei dubbi iniziali.

Poi arrivò la terza prova: matematica. Era prevista un’estrazione per scegliere quale traccia affrontare, e il prof De Patrizio, il mio insegnante di tecnologia, scelse proprio me e un vecchio compagno delle elementari con cui avevo legato tanti anni prima, ma con cui poi avevo perso i rapporti. Quell’incontro inatteso aveva aggiunto un tocco di nostalgia a una giornata già intensa. Insieme pescammo la busta con gli esercizi.

Non dimenticherò mai cosa accadde quando consegnai il foglio. Il prof De Patrizio mi guardò con un sorriso sincero e disse:

“Vittoria, sono fiero di essere stato il tuo prof di tecnologia.”

Quelle parole mi colpirono profondamente. Erano semplici, ma significavano molto per me. In un contesto in cui spesso mi sentivo sottovalutata, quelle poche frasi erano una conferma del fatto che qualcuno riconosceva il mio impegno e il mio valore.

Infine arrivò la prova orale, quella che pensavo sarebbe stata la più semplice, ma che si rivelò la più difficile. Ero sicura del mio argomento, la Croce Rossa e il volontariato, e mi sentivo pronta a rispondere a qualsiasi domanda. Ma i professori sembravano intenzionati a mettermi in difficoltà fin dall’inizio.

La professoressa di italiano mi interrompeva di continuo, mi sembrava un interrogatorio, ero colpevole di cosa? La professoressa di matematica mi riprese su qualcosa che in realtà io sapevo essere corretto, e cioè su quale fosse il gruppo sanguigno donatore universale, lo 0 negativo dissi, la professoressa si limitò a dire SBAGLIATO, ed io non mi sono saputa difendere, neanche quella volta. Mi sforzai di mantenere la calma, ma già sentivo il nervosismo salire. Poi intervenne la prof di arte, avevo portato un disegno, “ La notte Stellata” di Van Gogh, che svalutò e poi mi chiese I Girasoli, cercavo di rispondere, ma non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.

Ogni volta che provavo a spiegarmi, venivo interrotta da una nuova domanda. Non mi davano nemmeno il tempo di completare una risposta. Stavo per perdere completamente la fiducia in me stessa, quando il prof De Patrizio intervenne di nuovo:

“Un attimo, lasciamola parlare.”

Quelle parole furono come una boccata d’aria fresca. Finalmente qualcuno mi stava difendendo, riconoscendo il mio diritto di essere ascoltata.

Alla fine uscii dalla stanza stanca e delusa, ma anche con la consapevolezza di aver fatto del mio meglio. Forse gli esami non erano stati perfetti, ma avevo dimostrato a me stessa che potevo affrontare le difficoltà, anche quando tutto sembrava remare contro di me. E questo, alla fine, valeva più di qualsiasi voto.

 

Il primo giorno al liceo

L’arrivo al liceo è stato per me come l’inizio di un capitolo completamente nuovo. Fin da piccola avevo sempre immaginato di frequentare il De Cosmi, una scuola che per qualche motivo mi sembrava perfetta per me. Quando scelsi di iscrivermi all’indirizzo di Scienze Umane, sapevo che sarebbe stato un percorso impegnativo, ma ero anche entusiasta: finalmente potevo studiare materie che mi interessavano davvero.

Quel primo giorno di scuola lo ricordo come se fosse ieri. Mi sentivo emozionata e felice, con quella leggera ansia che accompagna sempre i grandi cambiamenti. Ma c’era qualcosa di speciale in quell’aria frizzante del mattino. La sede del De Cosmi era stata completamente rinnovata, ed eravamo proprio noi a inaugurarla. C’era un’atmosfera di attesa, quasi come se ogni angolo della scuola fosse pronto a raccontare nuove storie.

Le classi venivano chiamate una alla volta per sistemarsi nelle rispettive aule. Noi siamo stati l’ultima classe a essere convocata, e l’attesa sembrava interminabile. Quando finalmente fu il nostro turno, entrai con passo deciso, cercando di reprimere l’agitazione. L’aula era luminosa, con i banchi sistemati in file ordinate. Tutto era nuovo, fresco, come se aspettasse soltanto noi per prendere vita.

Mi guardai intorno, cercando un posto libero. Tra le tante facce nuove, notai una ragazza che sembrava simpatica e tranquilla. Si chiamava Alessandra, e decisi di sedermi accanto a lei. Non potevo immaginare in quel momento che sarebbe diventata la mia migliore amica e la mia compagna di banco per tutto l’anno.

Con Alessandra ci siamo intese fin dal primo istante. Bastò uno sguardo, qualche parola scambiata con semplicità, e subito nacque un’intesa speciale. Era come se ci conoscessimo da sempre, anche se ci eravamo appena incontrate. Con il tempo, quella connessione si sarebbe trasformata in una vera amicizia, fatta di risate, confidenze e sostegno reciproco.

L’inizio del liceo non è stato soltanto l’inaugurazione di una nuova scuola, ma anche di una nuova fase della mia vita. Venivo da anni complicati, in cui la scuola era stata spesso fonte di stress e insicurezza. Ma al De Cosmi le cose cominciarono a cambiare. Per la prima volta dopo tanto tempo, ero felice di andare a scuola.

I compagni di classe erano gentili e disponibili. Non c’era quella cattiveria sottile che avevo conosciuto alle medie. Certo, ogni tanto c’erano piccole incomprensioni, ma niente di paragonabile a ciò che avevo vissuto in passato. Mi sentivo finalmente accettata per quella che ero, senza dovermi nascondere o sentirmi diversa.

Anche i professori, sebbene severi e esigenti, sembravano davvero interessati a noi come persone, non solo come studenti. Mi piaceva il fatto che ci stimolassero a pensare con la nostra testa, a porci domande e a esplorare argomenti complessi. Le materie di Scienze Umane mi affascinavano sempre di più, e per la prima volta provavo una vera passione per lo studio.

Con Alessandra, poi, ogni giornata diventava più leggera. Era una persona solare e dolce, sempre pronta a farmi ridere anche nei momenti più difficili. Insieme affrontavamo verifiche, interrogazioni e compiti con un misto di serietà e ironia. Avevamo già mille ricordi condivisi, dal primo giorno fino ai nostri interminabili discorsi sui sogni per il futuro.

Il liceo mi aveva davvero cambiata, mi aveva regalato un senso di serenità che non credevo fosse possibile provare a scuola. Ogni mattina mi svegliavo con la voglia di andare in classe, di imparare qualcosa di nuovo e di trascorrere il tempo con i miei amici.

Quell’anno, per me, non era solo l’inizio di un percorso scolastico, ma anche il simbolo di una rinascita personale. Dopo anni difficili, finalmente mi sentivo felice, motivata e pronta ad affrontare il mondo con una nuova consapevolezza di me stessa.

 

Una chiacchierata speciale

Era passato circa un mese dall’inizio del liceo, e ormai avevo iniziato ad ambientarmi bene. Mi sentivo sempre più a mio agio tra i nuovi compagni e le lezioni che, nonostante il loro carico di studio, avevano cominciato ad affascinarmi. Quel giorno stavamo facendo matematica con la professoressa Sole, una donna risoluta ma paziente, che cercava di farci apprezzare la sua materia nonostante lo sguardo perplesso che molti di noi spesso le lanciavano.

Ero concentrata sui numeri scritti alla lavagna quando, all’improvviso, la porta dell’aula si aprì delicatamente. Nella luce del corridoio comparve il professor Crivello, il nostro insegnante di educazione fisica e coordinatore di classe. Fin dal primo giorno di scuola, il suo modo scherzoso e il sorriso costante mi avevano ricordato il professor De Patrizio delle medie, uno dei pochi docenti che aveva davvero creduto in me.

La professoressa Sole si interruppe per un istante, alzando un sopracciglio curioso. “Vittoria,” disse il professor Crivello con tono allegro, “puoi venire un attimo con me?”

Mi alzai tra gli sguardi curiosi dei miei compagni e lo seguii fuori dall’aula. Percorremmo insieme un breve corridoio fino a una piccola stanzetta accanto alla segreteria. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi, ma intuivo che si trattasse di qualcosa di importante.

“Ok,” disse il professor Crivello chiudendo la porta dietro di noi e prendendo posto su una sedia accanto a un tavolo. “Adesso facciamo due chiacchiere per scrivere il tuo PDP.”

Il PDP — Piano Didattico Personalizzato — era una sorta di contratto che stabiliva le agevolazioni e le strategie di supporto per studenti con DSA. Sapevo già che sarebbe stato necessario firmarlo sia io che i miei genitori, ma non mi aspettavo questo colloquio informale e, a dire il vero, un po’ insolito.

“Allora, Vittoria,” iniziò il professore con tono curioso, “raccontami un po’: cosa ti piace fare nel tempo libero?”

Ci pensai per qualche istante prima di rispondere. “Beh, mi piace leggere, disegnare… e poi sono appassionata di volontariato. Mi piacerebbe entrare nella Croce Rossa appena compio 14 anni.”

Il professore annuì, visibilmente colpito. “Interessante! Non è da tutti alla tua età avere già queste passioni. E a scuola? Quali sono le tue materie preferite?”

“Mi piacciono molto le materie umanistiche, come filosofia e scienze umane. Però anche educazione fisica non è male eh”, aggiunsi scherzando.

Lui rise. “Ah, finalmente qualcuno che apprezza il nostro lavoro!”

Continuammo a parlare per un po’, tra domande sulle mie abitudini di studio, sulle difficoltà che avevo riscontrato negli anni precedenti e su come potessero aiutarmi al meglio durante il liceo. Mi sentivo stranamente a mio agio: il professor Crivello aveva un modo di metterti a tuo agio che ricordava molto De Patrizio, sempre pronto a stemperare la tensione con una battuta.

“Vedi, Vittoria,” disse alla fine del nostro colloquio, “questo non è solo un pezzo di carta. È uno strumento per aiutarti a tirare fuori il meglio di te senza sentirti svantaggiata rispetto agli altri. Quindi, se hai bisogno di qualcosa, non esitare a farmelo sapere.”

Annuii, grata per quelle parole. A volte bastava poco per sentirsi compresi: una chiacchierata sincera, un professore disposto ad ascoltare.

Quando tornammo in classe, la professoressa Sole stava ancora spiegando una formula complessa. Mi sedetti di nuovo accanto ad Alessandra, che mi lanciò uno sguardo curioso ma complice.

“Com’è andata?” mi sussurrò sottovoce.

“Ti racconto dopo,” risposi con un sorriso.

Quel giorno mi rimase impresso per molto tempo. Non era stato solo il momento in cui avevamo scritto il PDP, ma anche un episodio che mi aveva fatto sentire davvero supportata in questa nuova avventura del liceo. Sapevo che non sarebbe stato sempre facile, ma per la prima volta dopo tanto tempo, ero certa di avere gli strumenti e le persone giuste per affrontarlo al meglio.

 

Ombre e luci tra i corridoi del liceo

Le cose al liceo andavano bene. Alessandra ed io eravamo diventate ancora più amiche. Non solo compagne di banco, ma alleate fidate che condividevano risate, confidenze e persino il peso delle interrogazioni più complicate. Con lei mi sentivo finalmente compresa.

La serenità però fu interrotta da un nuovo episodio che mi lasciò confusa e preoccupata. Era novembre, durante l’ora di geostoria con la professoressa Mancuso. Ricordo di aver avuto un forte mal di pancia, così chiesi il permesso di andare in bagno. Mi alzai dal banco e, uscii dall’aula.

Mentre stavo per aprire la porta del bagno, all’improvviso il mondo attorno a me cambiò. Davanti agli occhi iniziarono a comparire strane forme grigie, nere e bianche, come se una nebbia confusa avesse avvolto tutto. Mi sentivo sempre più distante dalla realtà, incapace di concentrarmi su ciò che mi circondava.

Non so esattamente quanto tempo passò. A un certo punto, sentii un lieve bussare alla porta. Martina, una mia compagna di classe, era venuta a cercarmi per capire se stavo bene. Le forme svanirono lentamente mentre la sua voce preoccupata mi richiamava alla realtà.

“Vittoria, sei qui da venti minuti!” mi disse con un tono allarmato.

Non me ne ero nemmeno accorta. Martina rimase con me, cercando di farmi riprendere. Ma visto che la situazione non migliorava, tornò in classe a chiamare la professoressa Mancuso. Quando arrivò, il suo viso tradiva una sincera preoccupazione. Rimasi fuori per quasi due ore, cercando di capire cosa stesse succedendo e assicurandosi che stessi meglio.

Dopo quel giorno, le cose sembrarono tornare alla normalità per un po’. Mi convinsi che forse era stato solo un episodio isolato, uno di quei momenti in cui il corpo ti chiede di fermarti.

Ma un venerdì mattina accadde di nuovo. Avevo l’interrogazione di inglese alla prima ora. La tensione e il mal di testa che sentivo già da qualche giorno si fecero insopportabili. Alla fine della seconda ora, non ce la facevo più. Mi girai verso Alessandra e le sussurrai: “Voglio andare in bagno… mi fa troppo male la testa.”

Lei annuì preoccupata. Mi alzai lentamente, ma non arrivai mai a destinazione.

Poco prima di raggiungere il bagno, il malessere ebbe il sopravvento. Sentii le gambe cedere e mi accasciai a terra. Tutto divenne buio.

Quando ripresi coscienza a tratti, Alessandra era lì accanto a me. Mi aveva stesa meglio sul pavimento e mi aveva sollevato le gambe, nel tentativo di farmi riprendere. Non vedendomi migliorare, corse a chiamare il professor Crivello, che nel frattempo era tornato in classe.

Ricordo che il prof arrivò di corsa e, con una calma rassicurante, mi mise subito in posizione di sicurezza. Mi controllò il respiro con precisione e professionalità, come se fosse stato abituato a gestire situazioni simili.

Dopo qualche minuto, cominciai a riprendermi. Aprii gli occhi lentamente, confusa ma consapevole che qualcuno era lì a prendersi cura di me.

“Devo aprire un’infermeria solo per te, Vittoria!” disse il prof Crivello con aria scherzosa.

Nonostante la debolezza, riuscii a ridacchiare. Ma mentre io cercavo di ritrovare stabilità, Alessandra scoppiò a piangere. Lo spavento era stato troppo grande per lei.

“Cavolo, mi hai fatto prendere un infarto!” esclamò tra le lacrime.

“Certo che sei forte,” le disse il prof , cercando di tranquillizzarla.

Quell’episodio non passò inosservato. Tornata a casa, ne parlai con i miei genitori. Decidemmo insieme che era giunto il momento di fare ulteriori visite per capire cosa stesse succedendo. Non potevo ignorare più questi continui episodi di svenimento.

Anche se non sapevo cosa mi aspettasse, una cosa era chiara: non ero sola. Tra Alessandra,e i miei genitori, sentivo di avere un piccolo esercito pronto a sostenermi in questa nuova sfida.

 

Legami che contano

Al liceo le cose stavano andando sempre meglio. Ogni giorno scoprivo qualcosa di nuovo su di me, sui miei compagni e sul legame che ci stava unendo.

Alessandra rimaneva il mio punto fermo, il pilastro a cui mi aggrappavo nei momenti di difficoltà e la compagna perfetta per le risate più spontanee. Sin dal primo giorno avevamo capito che eravamo destinate a diventare amiche per la pelle. Non importava quale fosse la materia o l’umore della giornata: con lei c’era sempre spazio per una battuta, uno sguardo complice o una chiacchierata infinita.

Lei capiva i miei silenzi, le mie paure e persino le mie ansie senza bisogno di spiegazioni. Una volta, durante una verifica, bastò un semplice incrocio di occhi per farmi sentire meno agitata. E poi c’era il nostro modo di scherzare su tutto, anche sulle cose più serie. Alessandra era la persona che sapeva prendermi per mano e tirarmi su quando ne avevo bisogno.

Ma non c’era solo Alessandra. C’era Beatrice, una ragazza solare e determinata con cui legai fin da subito. Non avevamo bisogno di molte parole per capirci. Con Beatrice ogni conversazione sembrava naturale, come se ci conoscessimo da sempre. Era una di quelle persone che ti trasmettono serenità e fiducia solo con un sorriso.

Beatrice aveva un modo tutto suo di affrontare la vita: diretto, sincero e senza inutili complicazioni. Grazie a lei, imparai a prendermi meno sul serio e ad affrontare certe situazioni con più leggerezza. Tra noi si creò un legame forte e sincero, basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco.

Poi c’era Roberta. All’inizio non avevamo legato molto, forse per timidezza o semplicemente perché frequentavamo persone diverse. Ma con il tempo, qualcosa cambiò. Non saprei dire esattamente quando scattò quella scintilla che ci avvicinò, ma da quel momento Roberta divenne una presenza fondamentale nella mia vita.

Era una ragazza intelligente, sensibile e sempre pronta a tendere una mano quando qualcuno aveva bisogno. Mi colpiva la sua capacità di ascoltare senza giudicare, di essere presente senza mai risultare invadente. Con lei le conversazioni spaziavano da argomenti seri a battute assurde, e ogni momento trascorso insieme era prezioso.

Roberta aveva una sensibilità speciale, quella che ti fa sentire capito anche quando non riesci a trovare le parole giuste per spiegare ciò che provi. Mi insegnò il valore dell’empatia e dell’ascolto sincero.

Poi c’è Martina, lei ho imparato a conoscerla dopo e devo dire che non mi aspettavo che un giorno saremmo diventate così amiche. Se volete sapere una cosa su di lei, e che mi parla sempre di ragazzi. Ma comunque è una di quelle amiche che non ti aspetti, ma che quando arrivano hai difficoltà a lasciarle andare.

Vittoria Chirizzi

 

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